Motivazione, fiducia, engagement, clima, welfare… Sono queste le parole magiche che compaiono nella scheda obiettivi degli HR Manager o di tutte le figure che nelle organizzazioni hanno il compito sfidante (o la mission impossibile?) di aumentare la performance e la produttività dei lavoratori ed evitare i costi di assenteismo e turnover. E cosa si fa mediamente per ridurre anche solo di un punto percentuale la fetta dei demotivati (87% di lavoratori secondo le indagini di Gallup)? Frutta fresca o il cane in ufficio, palestra aziendale con personal trainer, mensa con menù da chef stellati, asili nido, corsi di yoga, mindfulness..
Non che queste cose non siano importanti e non contribuiscano a rendere più piacevole e positivo l’ambiente di lavoro. È per evitare gli effetti negativi dell’infelicità e usufruire dei vantaggi della positività che le organizzazioni stanno introducendo sempre di più sistemi di benefits, orientati ad aumentare il benessere delle persone come lo smart working (lavorare da casa) o, dove non è possibile, altri tipi di benefits orientati alla promozione del benessere.
Qual è però l’elemento di criticità delle politiche di welfare? Che sono state vissute più come una moda o un’opportunità per il bilancio, che come l’occasione per ripensare il modo di agire dell’organizzazione. Pensa che un sondaggio (sempre di Gallup) ha evidenziato, per esempio, che anche quando il datore di lavoro offre benefits come la possibilità di usufruire del tempo di lavoro flessibile o lavorare da casa, i dipendenti preferiscono di gran lunga la positività sul luogo di lavoro a ricompense di tipo materiale. Questo per dire che spesso si utilizzano strumenti senza verificare se sono “coerenti” con il contesto o senza aver creato le pre-condizioni “culturali” affinché lo strumento sia efficace realmente: come dire che mettiamo un bel tappeto in casa ma la stanza la lasciamo disordinata e sporca!
La vera sfida per gli specialisti di Risorse Umane diventa allora poter rispondere alle domande:
Da cosa dipende davvero la fiducia delle persone? Cosa spinge un lavoratore a dare di più di ciò che viene formalmente chiesto, a contribuire con quella scintilla creativa personale a far funzionare qualcosa che tutto sommato spesso non gli appartiene?
Sono domande a cui oggi possiamo dare delle risposte solide ed estremamente concrete. Sappiamo, infatti, che per far fiorire i talenti e prosperare le organizzazioni, le persone devono sentirsi bene e stare bene insieme, devono sentirsi al sicuro, soddisfatte, ispirate, e non continuamente sotto pressione, stressate, non valorizzate o minacciate dagli altri.
Le neuroscienze ci dicono quali sono i meccanismi che innescano queste condizioni e attraverso la conoscenza di questi possiamo comprendere da cosa dipendono realmente la motivazione, il coinvolgimento, la fiducia.
Solo alcuni esempi tra gli altri: con riferimento al bisogno di sicurezza, è necessario interrogarsi se e quanto le persone attribuiscano questa qualità al loro lavoro, che non significa solo poter disporre degli strumenti di protezione per evitare di farsi male, o di regole di Safety come richiesto da una legge, ma allargare la visione alla puntualità dei pagamenti, alla presenza di un contratto o di una remunerazione che consenta di vivere dignitosamente e fare progetti di vita, alla disponibilità di strumenti e competenze per portare avanti i compiti o a una distribuzione dei carichi di lavoro sana, che possa consentire l’equilibrio con le altre dimensioni di vita.
Il bisogno di soddisfazione chiama, invece, in causa tutte le condizioni che agiscono sul senso di realizzazione dell’individuo, dallo scopo del suo lavoro, al suo sviluppo e alla sua crescita (non solo in termini di carriera intesa come scalata gerarchica). Qui entrano in campo anche fattori più sottili, come lo stile di leadership perché impatta sulla qualità della relazione umana, la cultura dell’errore e del feedback.
Infine, con riferimento al bisogno di connessione sociale, entrano in gioco i valori e la qualità delle relazioni umane, il senso di squadra e l’identità di gruppo, la fiducia e la capacità dell’organizzazione di costruire senso e porsi responsabilmente verso l’esterno, curando l’impatto ecologico e sociale.
Qui sta l’innovazione culturale e manageriale che un Chief Happiness Officer è in grado di favorire, rispetto ad un modello convenzionale di HR Manager: la capacità di intercettare i driver profondi della performance e ridisegnare intorno alla positività e al benessere processi, politiche e comportamenti coerenti, dunque capaci di generare risultati duraturi per l’organizzazione.