Come possiamo motivare i nostri collaboratori? Come possiamo cambiare la cultura organizzativa? Come possiamo cambiare l’atteggiamento mentale dei nostri manager? Come possiamo spingere i team ad assumersi maggiori responsabilità? Come possiamo migliorare la collaborazione? Come possiamo aumentare la fiducia dei capi verso i collaboratori? Come possiamo sviluppare le competenze? Come possiamo rendere il nostro lavoro più agile quando l’organizzazione non lo è?
Ci occupiamo di persone e organizzazioni da più di 15 anni. Lo abbiamo fatto da HR manager e da consulenti, lavorando in e con grandi multinazionali, di tutti i settori e dimensioni, italiane e straniere. Con sfumature e gradi diversi, quelle che hai appena letto sono le domande che abbiamo sentito risuonare di più e trasversalmente in tutti questi anni.
Sono domande tipiche di un dipartimento Risorse Umane, che ha lo sfidante compito di assicurare quel livello di coinvolgimento e motivazione delle persone necessari ad innescare il ciclo della performance e della produttività.
E nonostante la quantità di libri, articoli, corsi di formazione, convegni, best practices e nuove metodologie che ogni anno fioriscono su questi argomenti – servant leadership, total quality management, theory of constraints, lean, agile, kanban, designing thinking, scenario planning, delivering happiness e conscio capitalism.. solo per citare i modelli più recenti e con qualche fondamento scientifico – la realtà in cui ci troviamo è ancora caratterizzata da ambienti di lavoro e organizzazioni in cui le persone sono demotivate, si sentono sovraccaricate di compiti e sottoutilizzate nei loro talenti.
Quando chiediamo alle persone di raccontarci quali sono i momenti più belli della loro vita, la maggior parte riporta episodi e situazioni che appartengono alla sfera personale. Eppure passiamo al lavoro in media 1.725 ore l’anno, circa il 30% della nostra vita attiva che bruciamo in malumori, sogni senza troppa speranza di miracolose fughe su spiagge caraibiche a vendere collanine, piccoli screzi tra colleghi o peggio relazioni con i capi pesanti e dannose quanto una dieta a base di patatine fritte.
E insieme ad una vita lavorativa coinvolgente e significativa se ne vanno in fumo anche 500 miliardi di produttività…
Ecco perché la felicità al lavoro è cruciale: perché un lavoratore felice si ammala di meno, vive più a lungo, è più creativo, più coinvolto, lavora meglio e produce di più. I vantaggi sono davvero per tutti.
Qual è, dunque, l’elemento distintivo di un Chief Happiness Officer (CHO), cosa lo contraddistingue da un tradizionale HR Manager, oppure qual è la differenza tra i modelli di management e le teorie sulla leadership citate prima e l’Happiness Management?
Dal nostro punto di vista la novità e la maggior efficacia del CHO deriva da due caratteristiche specifiche:
- la qualità del suo approccio, cioè del suo mindset rispetto all’Organizzazione;
- la profonda conoscenza di alcuni principi di funzionamento dell’essere umano che costituiscono i driver dei comportamenti organizzativi.
Il Chief Happiness Officer ha una visione sistemica ed integrata delle Organizzazioni
Il CHO sa che le organizzazioni non sono macchine composte di parti separate e che le persone non sono ingranaggi da manipolare, controllare, contare, spostare senza che ci siano effetti su altre dimensioni.
Vede le organizzazioni come organismi viventi, complessi e adattivi che si modificano costantemente attraverso le interazioni interne ed esterne, e vede le persone nella loro “pienezza”, con bisogni, talenti, capacità, valori, anche esse in costante mutamento.
Questo tipo di visione richiede la capacità di osservare l’organizzazione in maniera sia allargata – considerando la dimensione esterna, la società e il contesto in cui l’organizzazione agisce, oltre che la dimensione interna – sia integrata.
Il tema dell’engagement, per parlare di uno degli argomenti più dibattuti, non può essere considerato solo attraverso l’azione su una parte (introducendo magari una policy specifica per migliorare il benessere delle persone, come il corso di yoga), ma lavorando sul “sistema” per creare le condizioni e il contesto affinché le persone si sentano coinvolte e la politica scelta sia efficace.
Sono 4 le dimensioni di questo sistema che entrano in gioco e che il CHO sa che deve considerare.
- L’evoluzione della società: il benessere psico-fisico è un problema emergente e che rischia di avere forti impatti sulle persone che vivono nella mia organizzazione?
Il CHO presidia l’area della cosiddetta Corporate Happiness, fa cioè della felicità una strategia organizzativa coerente.
Sa leggere i principali trend economico, sociali, ambientali, culturali, politici, tecnologici, e valutarne l’impatto sulla forza lavoro, in modo da costruire un piano di azioni e pratiche coerenti e finanziariamente sostenibile.
- La leadership e i modelli mentali di chi guida l’organizzazione: il mio capo pensa che se vado al corso di yoga sto perdendo tempo, e che la regola è sempre “business first”?
Il CHO coltiva la Positive Leadership e la Scienza del Sè, perché sa che non esistono organizzazioni positive senza leader positivi.
Aiuta i leader della propria organizzazione a definire un chiaro proposito ancorato a valori forti; promuove una leadership del servizio e diffusa a tutti i livelli, non solo manager, non solo capi; stimola a coltivare una propria routine del benessere e della felicità per dare l’esempio ed essere congruente nei comportamenti quotidiani; intercetta i bad managers e smette di promuoverli.
- I processi e le procedure: facciamo riunioni tutti i giorni anche quando dovrebbe esserci il corso di yoga? Il corso di yoga è considerato fuori orario di lavoro o messo in alternativa alla pausa pranzo?
Il CHO sceglie, disegna e gestisce processi e pratiche congruenti con la strategia identificata e capaci di generare benessere e percezione di coerenza.
- La cultura organizzativa: ci fidiamo delle persone? Il benessere fisico, emotivo e mentale fa parte dei nostri valori? E’ contemplato nel proposito della nostra organizzazione e ci adoperiamo per renderlo manifesto anche nella comunità e nel territorio in cui operiamo per contribuire al miglioramento generale collettivo?
Il CHO promuove una cultura organizzativa guidata da un proposito forte, ancorato a finalità collettive, capace di generare un impatto sociale, ecologico e di promozione del bene comune.
Il Chief Happiness Officer ha una metodologia adattiva basata su “principi di funzionamento”, non una ricetta di regole standard da applicare in ogni situazione e indipendentemente dal contesto.
Il CHO conosce la Scienza della Felicità e i “principi core” alla base del funzionamento individuale e collettivo degli esseri umani, ed è in virtù di queste conoscenze che riesce a disegnare la strategia ed implementare il percorso di sviluppo organizzativo più efficace e congruente con il contesto in cui opera.
La metodologia alla base dello sviluppo dell’Organizzazione Positiva non prevede la risoluzione di qualsiasi problema attraverso un approccio “<inserisci la pratica xy>”, come gli esperti di varie metodologie hanno spesso suggerito, perché sappiamo bene che a dispetto di tante buone prassi suggerite ed implementate, in molte organizzazioni i risultati non sempre sono arrivati..
Questo perché magari i prodotti o i servizi dell’organizzazione sono ormai disallineati ai bisogni del mercato o il modo di lavorare dissipa energie e i comportamenti sono incoerenti.
I principi raramente cambiano, le pratiche dipendono invece sempre dal contesto, dal modo in cui ognuno interpreta quel “<inserisci la pratica xy>”.
Quando s’inseriscono pratiche seguendo una ricetta precostituita è chiaro che si sta scommettendo sulla fortuna ed il rischio è che si finisca per rincorrere sempre nuove pratiche, nuovi metodi, nuove mode…
La metodologia che utilizza il CHO è basata, al contrario, su un’architettura di principi scientifici – ossia i driver del comportamento individuale e collettivo – e su una visione integrata e sistemica dell’organizzazione – ossia le 4 dimensioni della strategia, della cultura, della leadership e delle pratiche.
E’ per queste caratteristiche che il CHO sa scegliere cosa fare, da che punto partire e quali pratiche adottare per innescare il processo di costruzione dell’Organizzazione Positiva, che sarà prettamente originale e specifico per ogni organizzazione, perché terrà conto del momento storico della realtà in cui opera, di ciò che già è stato fatto e magari occorre solo sistemare e raccontare meglio, di ciò che è davvero necessario per il tipo di settore in cui si agisce.
Il CHO di un’azienda del settore edilizia sa, ad esempio, che non ha senso inserire un incentivo monetario per gli straordinari e i turni di lavoro se ai collaboratori non viene erogata un’adeguata formazione e dispositivi sulla sicurezza capaci di evitare i piccoli e grandi infortuni che continuano a verificarsi…
Il Chief Happiness Officer può essere considerato a tutti gli effetti un “complexity thinker”, un professionista capace di applicare i principi che derivano dalla ricerca scientifica (nello specifico quelli sul funzionamento psico-neuro-biologico degli esseri umani) in sistemi complessi (quali sono le organizzazioni), accanto ad una profonda comprensione del funzionamento dei sistemi sociali, potendo disporre tra l’altro di una ricca cassetta degli attrezzi fatta di pratiche e strumenti validati dalla ricerca sul campo che permettono di sperimentare e avviare concretamente il processo di trasformazione positiva.