di Stefano Zamagni
Stefano Zamagni è professore ordinario di Economia Politica all’Università di Bologna (Facoltà di Economia) eAdjunct Professor of International Political Economy alla Johns Hopkins University, Bologna. Nel 1996 attiva il primo master in Italia di Economia della cooperazione e fonda AICCON, l’Associazione italiana per la cultura cooperativa e delle organizzazioni non profit, da cui nascono Le Giornate di Bertinoro per l’Economia civile. Per più di vent’anni docente a contratto all’Università Bocconi di Milano.
Zamagni ha collaborato con numerosi governi alla stesura di leggi e con gli ultimi tre papi per la stesura di documenti a contenuto economico. Dal 12 marzo 2019 papa Francesco, riconoscendo gli alti meriti in campo scientifico, lo ha nominato Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali.
Grazie al professor Zamagni, che con apertura, gentilezza, forza e disponibilità ha dialogato con noi. Le parole che ci ha dedicato in prefazione aggiungono senso e significato al nostro impegno e ci insegnano sempre più che i grandi maestri amano ascoltare, conoscere e donare la loro energia. Le sue idee sulla felicità pubblica e il suo impegno per la diffusione dell’economia civile hanno ispirato la nostra ricerca e nutrito la nostra formazione, i valori della cooperazione e del bene comune sono tatuati nel nostro cuore, questo è un fatto.
Daniela Di Ciaccio e Veruscka Gennari
Saluto con simpatia il libro di Daniela Di Ciaccio e Veruscka Gennari che ora viene presentato all’attenzione del lettore. Altamente meritorio è l’impegno che le due Autrici hanno sostenuto e ciò per l’evidente ragione che ancora troppo pochi sono coloro che conoscono quale sia e quale debba essere il ruolo specifico del Chief Happiness Officer (CHO) dentro l’impresa.
Dato che il testo, oltre che essere bene organizzato, è pure assai chiaramente esposto, scelgo di dedicare queste poche righe a fornire una risposta alla seguente domanda:
da dove proviene la figura del CHO come esperto di Organizzazioni Positive e come soggetto cui è richiesto di favorire il superamento dell’ormai obsoleto modello tayloristico di organizzazione del lavoro?
Prendo le mosse da questa constatazione: i risultati delle più accreditate ricerche empiriche ci informano in modo incontrovertibile che il modo in cui è organizzata l’attività produttiva esercita forti ripercussioni sulla feli- cità di chi lavora.
Non è dunque vero, come si continua a pensare, che il lavoratore sia unicamente interessato alla remunerazione che riesce a conseguire. L’autoasfissia organizzativa di certi luoghi di lavoro è all’origine – come questo libro bene illustra – di dissonanze cognitive sviluppate dai lavoratori, le quali finiscono poi per incidere negativamente sugli stessi livelli di produttività.
D’altro canto, la partecipazione ai processi decisionali accresce, coeteris paribus, il livello di felicità individuale, perché aumenta il senso di appartenenza alla comunità aziendale.
…
Il passaggio dall’organizzazione verticale-gerarchica di tipo tayloristico all’organizzazione orizzontale esige, come sappiamo, che si pongano in atto azioni di coinvolgimento. Non bastano però le azioni volte al “far sapere” e al “far comprendere” che cosa sta succedendo dentro l’impresa, così che tutti i dipendenti possano allinearsi.
È necessario un altro livello di coinvolgimento: il “far sentire”, una dimensione, questa, alla quale il digitale mai potrà arrivare e che costituisce il compito del CHO.
Si tratta, infatti:
a) di far sentire le persone importanti rispetto a quel che fanno;
b) di far sentire le persone parte di un progetto che viene portato avanti assieme ai colleghi, favorendo così la cooperazione;
c) di far sentire le persone co-autrici di quel dato progetto, soddisfacendo così il loro bisogno di autorialità.
Prima di lasciare l’argomento, desidero fare parola di un rischio, potenziale ma possibile, associato all’impiego in azienda della figura del CHO e, più in generale, dei modelli di Organizzazione Positiva, come il libro di Di Ciaccio e Gennari illustra a tutto tondo.
Mi riferisco alla possibilità – ripeto, virtuale – che tali modelli vengano utilizzati in modo strumentale dal top management per conseguire obiettivi che nulla hanno a che fare con la ricerca della felicità.
Si chiede William Davies: perché le imprese si stanno così tanto interessando alla felicità dei loro dipendenti e collaboratori, tanto da aver iniziato a imitare Google che, per primo, ha istituzionalizzato la figura aziendale del CHO?
La risposta era già stata fornita alcuni anni prima da Andrew J. Oswald, Eugenio Proto e Daniel Sgroi (University of Warwick, 2008) quando avevano trovato che la felicità dei dipendenti aumenta in media la produttività del lavoro, e quindi il profitto, del 12% circa.
Di qui l’insistenza delle Human Relations sull’adozione di iniziative pro-felicità da realizzare da parte dell’impresa a vantaggio dei lavoratori: esercizi di team building; organizzazione del tempo libero; interventi sull’educazione dei figli per far sì che i loro problemi non riducano la felicità dei genitori; attività di natura spirituale, e così via. Con il che il dipendente che non dimostra il suo entusiasmo viene visto come una sorta di sabotatore da tenere d’occhio. Non solo, ma con strategie del genere si ottiene che la responsabilità di situazioni insoddisfacenti venga trasferita dal management al lavoratore stesso e alla sua psiche. Non a caso Edgar Cabanas ed Eva Illouz parlano, a tale riguardo, di dittatura della felicità, della tirannia dell’ottimismo a ogni costo.
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Non è difficile comprendere come il totalismo d’impresa, nelle sue forme plurime, costituisca oggi una seria minaccia per la difesa del principio del libero arbitrio.
Una società autenticamente umana non può consentire che il bisogno insop- primibile di felicità che alberga in ciascuna persona venga soddisfatto esogenamente in modo strumentale. La felicità, infatti, è una scelta che deve restare libera.
Occorre dunque vigilare affinché rischi e tentazioni del genere non abbiano a materializzarsi e a diffondersi.
Anche per questo, dobbiamo essere grati a Daniela Di Ciaccio e Veruscka Gennari per il loro ricco e intrigante contributo intellettuale. L’auspicio che formulo è che esso possa contribuire a ravvivare un dibattito di alto profilo su un tema di così straordinaria attualità e rilevanza.